Il rapporto tra medico e paziente negli scatti di Massimo Cavalletti
La mostra è stata allestita in occasione del convegno “Dal controllo motorio al recupero di forza”, organizzato dall’associazione Luigi Grimaldi, che è tenuto a Lucca al Palazzo Arcivescovile, sabato 30 novembre.
Riportiamo, di seguito, le parole dell’autore delle suggestive fotografie, Massimo Cavalletti:
Un reparto ospedaliero è sempre un luogo di sofferenza. Una sofferenza che non è
facile da affrontare, né da chi la subisce né da chi ne è testimone. Entrare nel
reparto per fare fotografie mi sembrava come il proverbiale entrare dell’elefante in
una cristalleria. Alto il rischio di urtare sensibilità e dignità delle persone, riducendo
quel dolore a qualcosa che assomiglia a uno spettacolo. Il dolore è un’esperienza
personale che vive nel fisico e nell’animo di chi lo prova. È forse l’esperienza più
intima e inaccettabile che si possa provare. Difficile da condividere serenamente con
gli altri, soprattutto con estranei. Cercarne la rappresentazione fotografica può
significare violare questa intimità, forzare una condivisione non cercata. In poche
parole: essere irrispettosi.
Sono di natura poco espansivo e non avevo chiaro quale dovesse essere il
comportamento migliore per suscitare un sentimento di accettazione. Avevo timore
che la mia riservatezza potesse suscitare sospetto, aggiungere fastidio a fastidio.
Non essendo però capace di mascherare il mio vero sentire, ho deciso che avrei
dovuto essere semplicemente me stesso e puntare sulla chiarezza, sull’onestà e sul
rispetto. Così, pieno di dubbi su come avrebbero reagito i pazienti alla mia presenza
e su come io avrei reagito alla loro, sono entrato nel reparto in punta di piedi.
Con una certa sorpresa accanto alla sofferenza ho trovato anche speranza. A chi ha
subito un intervento di protesi o una frattura, la riabilitazione permette nella
maggior parte dei casi il ritorno a una vita pressoché normale. La sofferenza è quindi
un momento di passaggio nel percorso della vita. Per essi la speranza si fa quasi
certezza.
Il reparto ospita però anche pazienti che hanno perso in parte o del tutto le capacità
motorie o quelle cognitive in seguito a ictus o gravi traumi cranici. Qui la sofferenza
che conta non è tanto quella fisica, quanto quella psicologica. Già prima di entrare in
reparto il paziente si deve confrontare con la certezza che la vita che ha vissuto fino
ad allora è finita. In molti casi si ha la consapevolezza di non poter più svolgere
autonomamente le normali pratiche di vita quotidiana, di aver bisogno quasi sempre
di una persona d’aiuto; la consapevolezza di dover affrontare un cambiamento
sostanziale nell’intrattenere rapporti sociali, per esempio per le difficoltà di
linguaggio; la consapevolezza che anche il rapporto con le persone della famiglia, le
persone a cui si vuol più bene, sarà diverso. Ecco allora che mi è sembrata
fondamentale l’empatia che tutto il personale del reparto mostra nel rapporto col
paziente. Sentire empatia in chi si prende cura di te genera fiducia nella possibilità
di recuperare e rende più efficaci gli interventi terapeutici messi in atto.
Ed è proprio per questo mix di empatia e di fiduciosa speranza che ho intitolato la
mostra “Cercando un’altra vita”, perché nella mia permanenza nel reparto ho avuto
netta la sensazione che, pur in presenza di gravi danni, sia possibile costruirsi
un’altra vita, diversa da quella che era, ma pur sempre degna di essere vissuta.
Massimo Cavalletti
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